Consiglio di Stato. sez. V, 19 giugno 2006 n. 3586
 

REPUBBLICA ITALIANA .

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

Sul ricorso n. 3440/2005 proposto dal signor Francesco MESSINA rappresentato e difeso dagli avv.ti Mario Verrusio e Stanislao Lucarelli, con domicilio eletto in Roma via del Foro Traiano n. 1, presso lo studio Palma-Schettini;

contro

- la signora Giuseppa RANAUDO, rappresentata e difesa dagli avv.ti Alfredo Contieri e Silvio Ferrara, con domicilio eletto in Roma via Zara n. 16 presso l’avv. Michele De Cilla;

- il COMUNE di BENEVENTO rappresentato e difeso dall’avv. Gerardo Maria Cantore con domicilio eletto in Roma via Reno, n. 21 presso l’avv.ssa Antonella Passerini;

- la signora MARISA RANAUDO non costituitasi;

- l’AZIENDA SANITARIA LOCALE di BENEVENTO n. 1 non costituitasi;

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia, della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: Sezione III 2043/2005, resa tra le parti, concernente SOMMINISTRAZIONE AL PUBBLICO DI ALIMENTI E BEVANDE.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora Ranaudo e del Comune di Benevento;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 13 gennaio 2006 il consigliere Nocola Russo, e uditi gli avv.ti Verrusio anche per delega di Cantore, Lucarelli e Contieri;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO
Con ricorso dinanzi al TAR Campania la sig.ra Giuseppa Ranaudo impugnò le autorizzazioni rilasciate in favore del pubblico esercizio sito al piano terra del palazzo in comproprietà con la sorella, “in parti uguali secondo una linea verticale di divisione dalle fondazioni al tetto”, con spazi esterni comuni.

Al riguardo, facendo presente che il ristorante era stato aperto al piano terra della verticale di proprietà della sorella, dedusse violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili, in particolare per l’inosservanza delle prescrizioni edilizie e sanitarie nonché per il notevole disturbo arrecato dalla continua attività di intrattenimento musicale, che pur sarebbe dovuta essere accessoria in relazione al tipo di autorizzazione (“A” e “B” ex art. 5 L. n. 287/1991).

L’intero fabbricato, che rientra nella zona “B” del PRG, è composto da quattro appartamenti, con piano terra e seminterrato. Adiacente all’abitazione della sig.ra Giuseppa, si trova la proprietà della sorella, Marisa Ranaudo, mentre il cortile è in comproprietà. L’edificio aveva originariamente esclusivamente destinazione residenziale, ma a seguito di richiesta del figlio della sig.ra Marisa Ranaudo, il Comune rilasciò un’autorizzazione all’esercizio di attività commerciale nella parte di fabbricato di proprietà della medesima signora Marisa Ranaudo. La ricorrente lamentò gravi traumi fisici e psicologici a lei e alla sua famiglia a causa del rumorosissimo pubblico esercizio denominato “Ristorante Music Hall Malò”, oggetto della detta autorizzazione, perché situato nello stesso edificio della propria civile abitazione, da cui è separata solo da un muro. L’attività dell’esercizio sarebbe, infatti, caratterizzata principalmente da musica ad alto volume, serate danzanti, karaoke - che si svolgono anche nello spazio esterno attrezzato, nonostante esso sia in comproprietà con la sig.ra Giuseppa - e provocherebbero frastuono continuo, impedendo a tutta la sua famiglia di condurre una vita normale. Per tali ragioni fu impugnata dapprima l’autorizzazione all’esercizio pubblico n. 569/03 del 21.2.2003, di tipo “A” e “B” per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, con intrattenimento musicale rilasciata dal Comune di Benevento al sig. Messina Francesco (con ricorso n. r.g. 7585/2003) e successivamente l’autorizzazione n. 575/03 del 7.8.2003 ottenuta dal sig. Messina (ricorso n. r.g. 12512/2003).

Il rilascio di quest’ultima autorizzazione sarebbe illegittimo in quanto avvenuto senza istruttoria e sulla base della falsa attestazione della sig.ra Marisa Ranaudo, che aveva depositato la DIA 24785 edilizia per il cambio di destinazione d’uso del piano terra da uso residenziale a commerciale senza opere edilizie (cd. funzionali); falsità che sarebbe stata accertata con sopralluogo del 26.8.2003 del Comune, i cui agenti avevano rilevato che il mutamento di destinazione d’uso da residenza a locale commerciale (di cui alla DIA del 19.6.2002), anziché meramente funzionale, era avvenuto con opere edilizie. Inoltre, la seconda autorizzazione al sig. Messina era stata concessa sulla scorta degli stessi documenti della prima annullata, integrati con l’iscrizione al REC per la specifica attività per cui si chiedeva l’autorizzazione (successiva alla autorizzazione n. 569/2003) e con il deposito della copia della DIA 24785 del 19.6.2003 in sanatoria per gli abusi edilizi nel piazzale esterno al locale, non riferiti però alle opere interne strumentali al cambiamento d’uso.

Precisamente la sig.ra Giuseppa Ranaudo con il secondo ricorso avverso tale provvedimento concessorio del Comune di Benevento eccepì:

a) la necessità della concessione edilizia in luogo della DIA in presenza di opere interne al locale che hanno determinato trasformazioni dell’immobile, incidenti sulla superficie e sul cambio di uso da residenziale a commerciale, in conformità con 1 ‘art. 2, lett. J) della L. R. Campania n. 19/2001; art. 10, comma Il del T. U. n. 380/2001.

b) La violazione del comma 7 dell’art. 3 della L. 287/9 1 in quanto le attività di somministrazione di alimenti e bevande vanno esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica, di igiene, nonché di destinazione d’uso dei locali ed edifici, oltre che di possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità dell’esercente: requisiti di cui l’appellante era deficitario.

c) Il mancato rispetto degli standards urbanistici ex art. 5 D.M. 1444/1968 previsti nel caso di mutamento di destinazione d’uso, quali i parcheggi.

d) L’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, nonché per incompetenza e per travisamento dei fatti presupposti, oltre alla violazione e falsa applicazione delle leggi n. 287/91 e n. 241/90, del D.M. 17/12/1992 n. 564; L. 447/1995, D.P.C.M. 1.3.91, D.P.C.M. 14.11.97 e D.M. 16.3.98, deIl’art. 5 D.M. 1444/1968, in quanto il tipo di autorizzazione richiesta e rilasciata dal Comune, per la somministrazione di alimenti e bevande congiunta all’attività di intrattenimento musicale e svago - che impone la prevalenza della prima sulla seconda - non è valida per il locale Music Hall Malò, come ampiamente provato, per il quale sarebbe necessiterebbe l’autonoma o diversa autorizzazione prevista dall’art. 3, comma 5, della L. n. 287/91, in cui è prevalente l’attività congiunta di intrattenimento e svago. Furono inoltre denunciati il vizio d’incompetenza dell’organo che aveva adottato l’autorizzazione, l’inerzia dell’ Amministrazione per aver omesso di adottare dovuti provvedimenti sanzionatori (ordinanza di chiusura dell’esercizio commerciale e l’ordinanza-ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative), una volta riscontrate le violazioni.

e) La violazione e falsa applicazione della L. n. 447/95, D.P.C.M. 14.11.97 e DM. 16.3.1998, nonché della L. n. 537/92 art. 2, comma 7, 8 e 9 e D.P.R. 18.4.1994 n. 384, conseguenza di errati, contraddittori ed incompleti accertamenti dell’inquinamento acustico prodotto dalla ditta Malò dell’ARPAC di Benevento. La corretta valutazione avrebbe rilevato valori di inquinamento acustico sempre sopra i limiti di legge, causati anche dall’insufficienza e inutilizzazione dei rimedi fonoassorbenti.

f) La violazione dell’art. 32 Cost., in quanto è dovere della p.a. tutelare la salute pubblica e dei singoli, che in una zona residenziale rappresenta l’interesse prevalente rispetto ad quello economico con esso non compatibile.

Il Comune di Benevento intimato si costituì in giudizio e resistette al ricorso, così come il controinteressato, titolare del ripetuto esercizio commerciale.

Il TAR Campania, Napoli, sez. III, con sentenza n. 2043/2005 del 21 marzo 2005, previa riunione dei ricorsi, dichiarò improcedibile il primo per sopravvenuta carenza d’interesse e accolse il secondo e, per l’effetto, annullò i provvedimenti impugnati.

Il TAR riconobbe preminente la tutela dell’interesse vantato dalla ricorrente e la prevalenza del suo diritto alla salute rispetto all’interesse economico; il Tribunale, inoltre, rilevò la violazione della legge n. 287/91 e delle collegate discipline normative richiamate. Nel merito affermò l’illegittimità del provvedimento autorizzatorio in quanto rilasciato in presenza di abusi edilizi, in violazione di legge, in carenza di istruttoria, di documentazioni e certificazioni inidonee al rilascio.

Venne specificamente accolta la censura relativa alla irregolarità urbanistico-edilizia prospettata nei ricorsi, in quanto il vizio risulterebbe persistente in entrambe le autorizzazioni rilasciate, essendo stato realizzato nell’ipotesi un mutamento di destinazione con opere. Infatti, le modifiche essenziali apportate al locale imponevano il permesso di costruire e la necessità del rispetto di adeguati standard urbanistici, in virtù della variazione della categoria edilizia (art. 2, L.R. 19/2001 e DM 1444/1968) consistenti nel mutamento funzionale da residenza a commercio. Tali modificazioni non potevano prodursi per effetto della presentazione della sola DIA (già qualificata illegittima una prima volta), né tanto meno con la diversa DIA in sanatoria dei lavori effettuati nello spazio esterno in comunione.

Infine il TAR accertò e dichiarò l’uso difforme dell’autorizzazione rilasciata all’esercente, riconoscendo che tale profilo rafforza il diritto di tutela della situazione soggettiva della sig.ra Giuseppa Ranaudo, “la cui quiete e salute non può essere compromessa da un’attività commerciale abusivamente intrapresa”.

Con ricorso ritualmente notificato e depositato il sig. Francesco Messina ha impugnato la prefata sentenza, non notificata, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia e chiedendone l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione dell’efficacia, sotto tre distinti motivi di censura così rubricati:

“Error in iudicando. Difetto di interesse. Inammissibilità di entrambi i ricorsi di primo grado”.

Error in procedendo et in iudicando. Violazione dell’art. 6 R.D. 642/1907 e 112 cpc – Ultrapetizione – Violazione dell’art. 21 L. TAR. Violazione dell’art. 3 L. 287/91. Inammissibilità ed infondatezza dei ricorsi”.

Error in iudicando. Violazione dell’art. 2 L.R. 19/2001 e dell’art. 10 co. 2 T.U. 380/2001. Errore nei presupposti di fatto e di diritto. Infondatezza dei ricorsi”.

Si è costituita l’appellata sig.ra Giuseppa Ranaudo, che ha chiesto il rigetto dell’appello e dell’istanza di sospensione, con ogni conseguenza di legge, anche in ordine alle spese di giudizio.

Si è altresì costituito il Comune di Benevento, che ha aderito all’atto di appello.

Con ordinanza n. 2727/05 del 14 giugno 2005 è stata accolta l’istanza cautelare e, per l’effetto, è stata sospesa l’efficacia della sentenza impugnata.

Le parti hanno depositato memorie illustrative in vista dell’udienza di discussione.

Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2006 la causa è stata spedita in decisione.

DIRITTO
L’appello è infondato.

Con il primo motivo si deduce la carenza d’interesse e di legittimazione della sig.ra Giuseppa Ranaudo all’impugnazione dell’autorizzazione commerciale rilasciata all’appellante, controinteressato in prime cure, e relativa ad attività di ristorazione, con intrattenimento musicale.

Il motivo è destituito di fondamento.

Come, infatti, correttamente rilevato dai primi giudici, l’interesse ad impugnare gli atti amministrativi concernenti l’esercizio del potere autorizzatorio, relativo ad una attività commerciale in giurisprudenza, è stato per lo più ravvisato con riferimento all’illegittimo allargamento della concorrenza e quindi in favore di coloro che si trovano in rapporto di possibile competitività con il gestore dell’azienda (cfr. Cons. St., sez. V, 5 febbraio 1993, n. 231) e che, quindi, legittimato a contrastare l’autorizzazione commerciale è in genere colui che subisce un danno dal nuovo esercizio, esercitando la stessa attività, o attività similare, nella stessa zona. Tuttavia, pur essendo la legge sul commercio posta a tutela del consumatore e della concorrenza, non possono essere certo disconosciuti l’apprezzamento ed il valore di altri interessi, in particolare di quelli degli abitanti della zona, eventualmente pregiudicati da un’attività nociva o molesta, qualora la loro posizione sia presa in considerazione e tutelata da una specifica norma.

Nel caso di specie, la posizione differenziata e qualificata è stata giustamente ravvisata dal giudice di prime cure nell’espressa disposizione di cui all’art.3 della legge 25 agosto 1991, n. 287, la quale, nel prescrivere che l’esercizio commerciale è subordinato al “rispetto delle vigenti norme, prescrizioni ed autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici”, amplia la sfera delle situazioni soggettive tutelabili a tutti coloro che si trovino giuridicamente collegati in modo non effimero con la situazione sulla quale incide il titolo abilitativo.

Ne consegue che del tutto fondatamente il Tribunale ha riconosciuto in capo alla ricorrente, odierna appellata, la legittimazione attiva a far valere l’interesse, di tipo oppositivo, volto ad impedire l’esercizio dell’attività discendente dall’atto ampliativo impugnato, avendo la stessa censurato, quale proprietaria confinante (con spazi esterni in comune), la pretesa violazione delle norme urbanistico-edilizie, nonché allegato e comprovato il pregiudizio che detta violazione ha arrecato alla sua sfera giuridica (cfr. Cons. St., sez. V, 23 aprile 1997, n. 758).

Si deve, dunque, ribadire quanto in più punti evidenziato dalla sentenza impugnata e, cioè, che il fondamento della legittimazione ad agire risiede prima di tutto nell’art. 32 Cost. e nei principi posti a base del riconoscimento della tutela giurisdizionale nella materia edilizia.

Proprio in ragione delle lesioni direttamente subite a causa dell’attività commerciale rumorosa e molesta esercitata dal controinteressato, l’appellata, insediata sul territorio (nel caso di specie via Avellino in Benevento fa parte della zona “B” della città, di tipo residenziale), non appare portatrice di un generico e indifferenziato interesse di mero fatto, ma di una posizione qualificata e differenziata, che è stata lesa dallo svolgimento dell’esercizio commerciale, i cui effetti deleteri si sono tradotti in patologie invalidanti.

La sentenza in proposito efficacemente sottolinea che “proprio l’esercizio difforme dal contenuto dei titolo abilitativo conferisce maggior forza alla situazione soggettiva vantata” dalla appellata “la cui salute non può essere compromessa da un’attività commerciale abusivamente intrapresa”.

I profili della legittimazione e dell’interesse ad agire della ricorrente in primo grado, odierna appellata, vanno, quindi, individuati nel suo rapporto continuativo e non saltuario con il territorio e nelle lesioni alla salute subite, derivanti dalla illegittimità della autorizzazione ex se e dalle modalità esecutive dell’autorizzazione, difformi dal titolo. I danni subiti dalla appellata e dalla sua famiglia, in qualità di abitanti dell’appartamento adiacente il Music hall Malò, sono, infatti, legati alla mancata osservanza delle norme urbanistiche ed igienico-sanitarie connesse al cambio di destinazione d’uso e all’effettivo tipo di attività esercitata nel locale.

Parimenti infondata è la eccezione di difetto di giurisdizione. A giudizio dell’appellante la giurisdizione apparterrebbe al giudice ordinario poiché si tratterebbe di un giudizio a tutela della salute dei ricorrenti in primo grado. Per converso, va considerato che il ricorso di primo grado non ha avuto ad oggetto il risarcimento dei danni provocati alla salute o il mero comportamento idoneo a recare disturbo alla vita e alle occupazioni dei vicini, bensì l’illegittimità dell’autorizzazione commerciale rilasciata, il suo uso non conforme alle prescrizioni del titolo abilitativo e l’illegittimità del cambio di destinazione d’uso, presupposto per l’autorizzazione de qua.

D’altro canto, il sindacato giurisdizionale sul rispetto delle norme che disciplinano la materia edilizia ed il relativo regime delle concessioni (ora permessi di costruire) sono profili tradizionalmente sintomatici della presenza dell’interesse legittimo, così come quello relativo alla violazione delle disposizioni che regolamentano le attività commerciali e le specifiche prescrizioni urbanistiche ed igienico-sanitarie ad esse collegate, in quanto poste a tutela anche di coloro che possono essere direttamente incisi dall’esercizio di quelle attività.

Con il secondo motivo di appello si deduce l’inammissibilità del ricorso di primo grado per omessa impugnazione della D.I.A. presentata dal sig. Messina.

Al fine di poter meglio delibare la fondatezza o meno di tale eccezione di inammissibilità, appare utile fare qualche breve cenno in ordine alla questione della natura giuridica della dichiarazione di inizio di attività, al centro di un annoso dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, dibattito non ancora sopito e che ha ricevuto di recente nuova linfa a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 80/2005.

Le tesi che si contendono il campo sono essenzialmente due.

Secondo una prima opzione ermeneutica la dichiarazione di inizio di attività si configura come un atto di iniziativa privata e la legittimazione all’esercizio dell’attività non è fondata su un atto di consenso della P.A., ma trova la propria fonte direttamente nella legge.

Secondo un altro orientamento, invece, la DIA costituirebbe una fattispecie complessa o a formazione successiva, che vede un atto amministrativo tacito formarsi in presenza di alcuni presupposti formali e sostanziali e per effetto del decorso del tempo assegnato all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio.

Aderire all’uno o all’altro indirizzo interpretativo comporta alcune rilevanti conseguenze in punto di tutela per il terzo danneggiato dall’intervento edilizio.

Muta, in particolare, l’oggetto del giudizio. La giurisprudenza, alquanto divisa sul punto, ha, invero, individuato l’oggetto del giudizio di impugnazione ora direttamente nella DIA, ora nel comportamento inerte tenuto dall’amministrazione dopo la presentazione della dichiarazione, ora nel silenzio sulla richiesta di intervento in autotutela, ora nel silenzio sulla richiesta di esercizio del potere sanzionatorio.

Il problema si pone in quanto, se si considera la DIA un atto privato, allora ne è inammissibile la diretta impugnazione in sede giurisdizionale e la tutela del terzo passa attraverso la sollecitazione del potere (sanzionatorio o di autotutela) dell’amministrazione e, in caso di inerzia, dall’impugnazione del silenzio secondo il rito di cui all’art. 21-bis L. n. 1034/1971 (cfr. Cons. St., sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453), oppure dall’accertamento in sede giurisdizionale dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione che, pur nell’inesistenza dei presupposti e dei requisiti fissati dalla legge per il legittimo compimento dei lavori, non ha inibito l’avvio delle opere oggetto della denunzia

Se, invece, si attribuisce alla DIA il valore di provvedimento, allora non vi sono ostacoli alla sua impugnativa: alcune pronunce configurano, infatti, la DIA come istanza idonea ad originare un provvedimento per silentium della p.a. che nei trenta giorni successivi alla sua presentazione non inibisca l’inizio dei lavori, ritenendo ammissibile il ricorso del terzo danneggiato avverso l’atto di assenso tacito dell’amministrazione.

Quest’ultima opzione ha registrato consenso in qualche decisione, di questo Consiglio che qualifica la DIA, unitamente al decorso del tempo, in termini di provvedimento amministrativo (cfr. Cons. St., sez. VI, 10 giugno 2003, n. 356).

Tuttavia, l’orientamento prevalente di questo Consiglio è per la tesi della DIA come atto privato (cfr. Cons. St., sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453 ; id., 22 luglio 2005, n. 3916).

La tesi che configura la DIA come un atto abilitativo tacito, formatosi a seguito della denunzia del privato e della successiva inerzia dell’amministrazione sembrerebbe oggi avere al suo arco una nuova freccia, costituita dalla espressa previsione, contenuta nell’art. 19, comma 3, l. 7 agosto 1990 n. 241, nel testo stabilito dall’art. 3, comma 1, d.l. 14 marzo 2005 n. 35, conv. nella l. 14 maggio 2005 n. 80, del residuare in capo alla P.A. del potere di autotutela.

Non pare, tuttavia, che questa novità normativa possa ritenersi decisiva, in quanto, già prima della citata L. n. 80/2005 la giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, dec. n. 4453 del 2002 cit.) affermava che, successivamente alla proposizione della denunzia di inizio di attività, residua comunque in capo alla P.A. il potere di autotutela, sia pure sui generis in quanto caratterizzato dal fatto di non implicare un’attività di secondo grado su di un precedente provvedimento amministrativo; il riferimento all’autotutela può, quindi, spiegarsi anche restando nei confini della linea interpretativa secondo cui la DIA è un atto del privato: si tratterà, appunto, di un’autotutela sui generis poiché non andrà ad incidere su un atto amministrativo, ma consisterà nella possibilità per la P.A. di adottare, successivamente alla scadenza del termine di trenta giorni dalla comunicazione di avvio dell’attività, provvedimenti di divieto di prosecuzione della stessa e di rimozione dei suoi effetti, condizionata, però, dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto, ulteriore e diverso rispetto a quello volto al mero ripristino della legalità violata.

Quanto finora detto ha voluto costituire una premessa per poter meglio affrontare l’eccezione di inammissibilità proposta come motivo di appello dal controinteressato, soccombente in primo grado.

Tale eccezione appare priva di pregio.

A prescindere dalla tesi che si ritiene preferibile, la D.I.A. costituiva comunque nella specie il titolo abilitativo per l’esecuzione dei lavori necessari al mutamento di destinazione dell’immobile, presupposto in base al quale il sig. Messina ha ottenuto l’autorizzazione commerciale impugnata. Di conseguenza, solo quest’ultimo provvedimento poteva essere impugnato. L’ insussistenza dei presupposti per la produzione degli effetti derivanti dalla D.I.A., consistenti nella formazione del titolo abilitativo edilizio, si è, nel caso di specie, riverberata sulla autorizzazione commerciale, determinandone l’illegittimità.

Infatti, il principale motivo di ricorso, accolto dal TAR, consisteva proprio nella violazione dell’art. 3 della legge 25 agosto 1991, n. 287, il quale prescrive che l’autorizzazione all’esercizio commerciale è subordinata “al rispetto delle vigenti norme, prescrizioni ed autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria”. Di conseguenza la violazione delle disposizioni che impedivano la realizzazione del mutamento di destinazione attraverso la semplice D.I.A. ha determinato l’illegittimità della autorizzazione impugnata.

Anche a voler seguire l’impostazione dell’appellante, l’eccezione appare, comunque, destituita di fondamento, poiché dal contenuto sostanziale del ricorso in primo grado emerge che la DIA, sulla cui base sarebbe avvenuto il cambio di destinazione d’uso del locale, è stata continuamente citata e specificamente censurata per i suoi vizi, che sono stati posti in relazione con l’autorizzazione commerciale impugnata. Pertanto, risultano infondate le argomentazioni sul mancato richiamo della D.I.A.

I presupposti dell’atto di autorizzazione (D.I.A. e cambio di destinazione) sono stati censurati in entrambi i ricorsi esperiti in prime cure.

Nel caso di specie risulta dunque indubbio che la denuncia dell’insussistenza dei presupposti della DIA e del relativo cambio di destinazione d’uso abbiano costituito oggetto del giudizio, risultando essi elementi indispensabili nella ricostruzione della vicenda dedotta in sentenza. Questa, contrariamente a quanto eccepito dall’appellante, è motivata in modo ampio ed esaustivo mediante specifici ed inequivocabili riferimenti all’illegittimità della DIA ed al mutamento di destinazione che non si sarebbe potuto in tal modo realizzare.

Per quanto concerne poi la reiterata censura contenuta al punto 2.3 deI ricorso in appello, si rileva che la destinazione del locale ad uso commerciale è stata puntualmente e ripetutamente censurata negli atti introduttivi dei due giudizi da parte dell’appellata.

Quanto al terzo motivo, relativo al preteso error in iudicando, si rileva che l’appellata, ricorrente in primo grado, ha principalmente censurato la realizzazione di opere incidenti sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici in cui si trova il Music Hall Malò, atte al passaggio di categoria edilizia, che potevano essere realizzate solo con il permesso di costruire e non con semplice DIA (in ogni caso illegittima), come emerge dal combinato disposto dell’art. 2, co. 7, L.R. Campania n. 19/01, del TU n. 380/2001 e del costante indirizzo giurisprudenziale in subiecta materia.

Come, infatti, correttamente statuito dai primi giudici, in linea di principio, le trasformazioni d’uso cc.dd. funzionali –vale a dire senza opere – sono assoggettate al regime autorizzatorio del silenzio assenso a seguito di denuncia di inizio attività (D.I.A.), mentre abbisognano di permesso di costruire quelle che danno luogo a modifiche essenziali comportanti variazioni degli standards urbanistici, con riferimento alle categorie edilizie introdotte dal D.M. 2.4.1968, n.1444.

Infatti, ogni qualvolta si passa da una categoria edilizia ad un’altra va verificata la compatibilità dell’uso ed eventualmente la dotazione di standards urbanistici.

Ne consegue che trasformare l’uso di un immobile abitativo in ristorante, seppur senza opere, comportando il cambio di categoria edilizia non compatibile con l’uso precedente, determina l’obbligo di verifica degli standards urbanistici, ad esempio della dotazione di parcheggio.

In definitiva solo il mutamento della categoria edilizia e l’assenza di opere determina il “mutamento libero” ovvero a mezzo denuncia inizio attività (D.I.A.), mentre ove muti la categoria edilizia occorre il permesso di costruire.

Il costante indirizzo giurisprudenziale ha sempre sostenuto che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria.

Nella specie la legislazione regionale (art. 2 della L.R. n. 19/2001) – cui l’art.10, comma II, del T.U. n. 380/2001 demanda il compito di determinare quali mutamenti dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati a permesso di costruire ovvero a denunzia di inizio di attività – sulla scorta dell’ormai cennata giurisprudenza - formatasi a partire dall’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 73/1991 (da ultimo Cass. n. 22041 del 22 novembre 2004) - ha liberalizzato le modifiche funzionali, vale a dire quelle che avvengano senza l’esecuzione di alcun intervento edilizio, a condizione che rimanga inalterata la categoria edilizia.

Più precisamente è libero il mutamento di destinazione d’uso senza opere purché nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee (co. 5 art. 2 cit.), mentre possono essere realizzate in base a semplice denuncia di inizio attività le modifiche che non comportino interventi di trasformazione dell’aspetto esteriore o di volumi o di superfici, sempre a condizione che siano compatibili con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee (co.1 lett. f), art.2 cit.).

Continua invece a essere richiesto il permesso di costruire per tutte le altre modifiche che avvengano con opere incidenti sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia (co. 7, art.2 cit.).

Tanto premesso, il Tribunale ha giustamente rilevato che per la sua natura il mutamento di specie, da residenza a commercio, non poteva realizzarsi secondo la procedura di silenzio assenso connessa alla denuncia di inizio attività bensì necessitava di essere assentito con provvedimento formale di concessione (ora permesso di costruire).

In particolare, alla stregua della normativa surriportata, il cambio di categoria edilizia - comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi - rende ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno con l’effettuazione di opere edilizie.

Ma anche a voler ritenere rilevante quest’ultimo elemento, le denunce prodotte dall’interessato parimenti non possono adeguatamente supportare la legittimità del cambio di destinazione, atteso che, contrariamente a quanto ivi affermato, la modifica dell’uso è avvenuta “per tabulas” proprio con opere edilizie, sia esterne (la recinzione di cui alla D.I.A., peraltro in sanatoria, del 19 giugno 2003) sia interne (redistribuzione della superficie adibita a wc e wc personale con tramezzi divisori e porte, arretramento della porta d’ingresso, conseguente creazione di un atrio con tramezzi di 2,70 metri lineari ed altezza di metri 3, piccola finestra di metri 1,30x0,40: cfr. allegato n. 5 al ricorso di primo grado), strumentalmente necessarie ai fini del diverso utilizzo commerciale dei locali.

In definitiva il passaggio alla diversa categoria funzionale e l’effettuazione dei suddetti lavori edilizi impediscono che nella specie possa trovare applicazione la normativa di semplificazione ed esige a contrario l’espressa e manifesta valutazione e determinazione dell’autorità preposta al rilascio del titolo edilizio abilitativo.

La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto dell’area.

Nel caso di specie, le opere realizzate all’interno (ma anche nell’area esterna) hanno determinato quei mutamenti connessi alla trasformazioni dell’immobile o a parti di esso, incidenti sulla superficie e sul cambio di uso da residenziale a commerciale, che secondo le normative citate abbisognano della concessione edilizia; la redistribuzione della superficie adibita a wc. e wc. personale con tramezzi divisori e porte, l’arretramento della porta d’ingresso con la conseguente creazione di un atrio, effettuata con tramezzi aventi uno sviluppo lineare di 2,70 ed un’altezza di mt.3 circa e di una piccola finestra di mt.1,30 x 0,40 e le altre trasformazioni hanno prodotto per l’appunto un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale che ha sconvolto l’assetto dell’area di tipo residenziale.

Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari caratteristiche - rispetto agli interventi di trasformazione del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia - devono pertanto essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un organismo in tutto o in parte nuovo (cfr. Cass. Pen., sez. III, 15 marzo 2002, n. 19378).

La nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee (cfr. Cons. St., sez. V, 7 settembre 2004, n. 5867), e ciò non è avvenuto nel caso del Music hall Malò.

Va precisato che sono state realizzate “opere evidenti” anche negli spazi esterni, come hanno accertato le perizie e i sopraluoghi, da cui è emerso altresì che tutte le opere realizzate erano state studiate per creare l’intercomunicazione e lo sviluppo della parte interna con quella esterna del locale, in maniera da determinare un vero e proprio “sconvolgimento dell’assetto dell’area” in cui l’intervento edilizio ricade.

La sentenza impugnata ha, per giunta, stabilito che una volta accertato l’avvenuto cambio di categoria edilizia - con o senza opere edilizie - doveva ad ogni modo seguire l’adeguamento dei carichi urbanistici e le relative dotazioni di standards (parcheggi), che non risultano essere state compiute (a ciò il Collegio aggiunge che un tale mutamento richiederebbe anche l’obbligo del pagamento degli ulteriori oneri di urbanizzazione che seguono al cambio di destinazione d’uso dovuto all’intervento edilizio de quo).

Da ultimo, il giudice di prime cure ha correttamente osservato che ogni doglianza concernente l’attività collaterale - attività che la ricorrente, odierna appellata, assume non marginale ma prevalente, con conseguente necessità del possesso anche dell’autorizzazione commerciale di tipo “C” ex art. 5 L. n. 287/1991 - oltre che assorbita dall’illegittimità edilizia sopra evidenziata è stata superata dall’ordinanza n. 1194 del 22 febbraio 2004, con la quale il Comune ha disposto “la cessazione dell’attività di pubblico spettacolo condotta in difetto di autorizzazione”.

Da ciò i primi giudici hanno tratto il giusto corollario - cui si è accennato sopra - per cui non può fondatamente sostenersi che l’eventuale abuso in proposito concernerebbe “solo le modalità di esercizio della ripetuta autorizzazione, perché proprio l’utilizzo difforme dal contenuto del titolo abilitativo conferisce maggior forza alla situazione soggettiva vantata dalla ricorrente, la cui quiete e salute non può essere compromessa da un’attività commerciale abusivamente intrapresa”.

Per tali considerazioni l’appello in esame deve essere respinto in quanto infondato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione V – respinge l’appello e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza.

Condanna l’appellante al pagamento in favore dell’appellata delle spese, competenze ed onorari di giudizio, liquidati in complessivi euro 3.000,00 (tremila), al netto di IVA e CAP.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 gennaio 2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, con l’intervento dei signori:

Raffaele Iannotta Presidente

Giuseppe Farina Consigliere

Cesare Lamberti Consigliere

Marzio Branca Consigliere

Nicola Russo Consigliere estensore

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

f.to Nicola Russo f.to Raffaele Iannotta

IL SEGRETARIO

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 19 giugno 2006 (Art. 55. L. 27/4/1982, n. 186)

p.IL DIRIGENTE

f.to Livia Patroni Griffi

N°. RIC .3440/2005