Commento
 

Appalti pubblici e tariffe professionali dopo la legge 248/06

Su un settimanale di settore è stata pubblicata la circolare di un sindacato di categoria dalla quale si evince che “solo” nel mondo anglosassone (USA e UK) vige la più totale libertà di negoziazione delle parcelle professionali, mentre negli altri Paesi europei sono in vigore tariffe obbligatorie o raccomandate.
L’Italia è dunque diventata anglosassone, visto che le tariffe professionali non sono più obbligatorie e nemmeno raccomandate se non in casi particolari, e ciò dopo la legge 248/06 di conversione del decreto legge 4 luglio 2006 n. 223.
Premesso che la tariffa italiana di cui alla legge 143/49 a nostro avviso includeva tutte le attività sui lavori pubblici ante legge 109/94 (la cui inadeguatezza è stata superata dal D.M. 4-4-2001), riteniamo evidenziare due aspetti:
1) la legge 248/06 sembra non essersi limitata alla liberalizzazione, almeno per quanto riguarda gli appalti pubblici, bensì abbia addirittura “disconosciuto” le tariffe professionali;
2) le prestazioni professionali nel settore pubblico, dalla Merloni in poi, sono notoriamente più complesse sia del sistema previgente che di quelle del settore privato e, quindi, palesemente più onerose.
Il cosiddetto decreto “Bersani”, come noto, oltre ad abrogare i fissi e i minimi di tariffa, ha disposto altresì che “nelle procedure di evidenza pubblica, le stazioni appaltanti possono utilizzare le tariffe, ove motivatamente ritenute adeguate, quale criterio o base di riferimento per la determinazione dei compensi per attività professionali”.
Il precetto interviene dunque a modificare il codice degli appalti di cui al Dlgs. 163/06 e segnatamente l’articolo 91 comma 2, ultimi due periodi , e tutto il comma 4 del medesimo articolo , per quanto riguarda i minimi di tariffa, e il primo periodo del comma 3, sempre dell’articolo 91, laddove prescrive che “I corrispettivi delle attività di progettazione sono calcolati, ai fini della determinazione dell’importo da porre a base dell’affidamento, applicando le aliquote che il decreto di cui al comma 2 stabilisce ripartendo in tre aliquote percentuali la somma delle aliquote attualmente fissate, per i livelli di progettazione, dalle tariffe in vigore per i medesimi livelli.” per quanto riguarda la determinazione dei compensi per attività professionali.
La norma non si è limitata a concedere alle stazioni appaltanti la libertà di determinazione del compenso da porre a base delle procedure di affidamento degli incarichi professionali, bensì anche, almeno questo sembra essere il tenore, di disattendere le tariffe nella stima dell’importo, sia come criterio che come base di riferimento, stante l’introdotto obbligo di motivarne l’adeguatezza in caso d’uso (sic!).
Il legislatore sembra aver riconosciuto implicitamente l’inadeguatezza delle tariffe esistenti, e forse anche di quelle a venire, ma nonostante ciò ha ammesso che le stazioni appaltanti le possano “ritenere” adeguate a condizione che “giustifichino” questo loro comportamento rappresentando e documentando l’iter logico-intellettivo seguito per arrivare a tale decisione, ovvero indicando i presupposti di fatto e le ragioni tecnico-giuridiche che determinano la decisione forse anche in relazione a risultanze istruttorie (motivazione).
Come evidenziato nella determinazione n. 4/2007 dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, viene per così dire rispolverato il principio di adeguatezza contenuto nell’articolo 2233 del codice civile.
Consegue pertanto che un dato oggettivo, almeno nella sua presunzione, risultante dall’applicazione di tariffe “legali”, stabilite cioè dallo stesso legislatore, debba cedere il passo a un dato “soggettivo” del quale non viene richiesta alcuna motivazione; anzi si è creato il presupposto contrario: il dato certo va giustificato in termini di adeguatezza (ma allora, per non dover motivare il compenso stimato sarà forse sufficiente non dire che deriva dalle tariffe?)
La situazione creatasi potrebbe palesare un fatto illogico: il legislatore diffida da se stesso dal momento che con un atto legislativo e/o regolamentare approva le tariffe professionali di riferimento (ritenendole pertanto aderenti al principio di adeguatezza) salvo poi con un altro atto invitare ad una loro motivata applicazione in ordine al medesimo principio; situazione paradossale che esenta i giudici considerato l’obbligo assegnato di provvedere “alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale ”.
Le conseguenze di questa “deregulation” possono essere le più diverse, nel senso di andare nella direzione auspicata dal legislatore (tutelare il “consumatore” in quanto il libero mercato porta un livellamento verso il basso delle tariffe), oppure nella direzione opposta (è notorio che le tariffe costituivano al tempo stesso minimo e massimo) per cui la liberalizzazione porta ad un livellamento verso l’alto (altrettanto notorio è il cronico ritardo dell’adeguamento dei compensi al costo della vita e alla crescente complessità delle prestazioni soprattutto sul versante amministrativo e procedimentale – per permessi di costruire, autorizzazioni, pareri ed atri titoli abilitativi comunque denominati). Non da meno è da ritenere che la legge 248/06 abbia accresciuto la confusione (l’Autorità di Vigilanza con la determinazione 4/2007 citata pare abbia dovuto “rassicurare” le stazioni appaltanti, in seguito ai diversi quesiti ricevuti, della legittimità degli atti dalle stesse formati riferendosi alla tariffa professionale, ed in particolare a quella specifica per gli appalti pubblici di cui al D.M. 4-4-2001 – sic!).
Altrettanto verosimile è l’ipotesi di aumento del contenzioso giurisprudenziale, forse anche a livello europeo. Il compenso determinato “liberamente” dalle stazioni appaltanti, infatti, può rendere molto sottile il confine tra la legittima discrezionalità e l’illecita arbitrarietà, nel senso che ben si presterebbe ad usi strumentali (si rimarca il fatto che non è richiesta motivazione in ordine all’adeguatezza); compenso dal cui importo, come noto, dipende il tipo di procedura di affidamento, per cui il rischio di procedure illegittime si eleva così come le possibili responsabilità del soggetto “determinante” ossia il tecnico responsabile del procedimento.
La ratio della legge 109/94 prima (art. 17) e del Dlgs. 163/06 oggi (art. 91), sembra piuttosto chiara: se le stazioni appaltanti “pubbliche”, quali le P.A., per aderire al principio costituzionale di buona amministrazione (art. 97) sono tenute ad agire in modo imparziale, ed avendo taluni vincoli procedurali lo scopo precipuo di incanalarne l’azione entro percorsi obbligati di garanzia, l’obbligo di determinare/calcolare i compensi secondo tariffe “legali”, vieppiù quando l’importo del compenso è discriminante quanto a procedure e regole di scelta e affidamento, costituirebbe quel vincolo di garanzia ed imparzialità, oltre che di uniformità e/o uguaglianza, legislativamente e costituzionalmente richiesti.
Il Dlgs. 163/06, vale la pena di ricordare, dispone che per compensi sotto i 100.000 euro l’affidamento rimane sostanzialmente un atto “fiduciario” (intuitus personae), nonostante il termine non esista più e sia rimarcato il rispetto dei principi “europei” di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza.
Infatti le stazioni appaltanti in tale evenienza, ove possibile, invitano a gara almeno cinque professionisti, sempre che sussistono in tale numero aspiranti idonei, sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economica finanziaria e tecnico organizzativa desunte dal mercato (non è dato sapere se anche nel rispetto del principio di rotazione ).
Per gli affidamenti di incarichi professionali con importo corrispettivo pari o superiore alla predetta soglia, invece, le procedure di scelta sono ben diverse ed onerose per le stazioni appaltanti (parte II, titolo I e titolo II del nuovo codice dei contratti pubblici).
Molti sono i dubbi sulla disposizione in commento: ad esempio se una stazione appaltante stimasse l’importo dei compensi in euro 90.000 e procedesse dunque ad invitare 5 professionisti i quali “rispondono” con aumenti dal 15 al 20%, così che l’importo risulta superiore ai 100.000, significa che il compenso doveva essere stimato sopra i 100.000 euro e quindi sussisteva l’obbligo di attivare le procedure di affidamento della parte II, titolo I e/o titolo II del codice?
Un’ultima osservazione riguarda le tariffe. Il legislatore nell’ammettervi il ricorso da parte delle stazioni appaltanti usa il plurale, il quale, nel caso dei servizi di architettura ed ingegneria può voler dire “libertà” di scelta tra la tariffa di cui alla legge 143/49 e quella specifica per i lavori pubblici di cui al D.M. 4-4-2001.
Al proposito si ritiene che l’unica tariffa di riferimento debba essere quella del D.M. del 2001 come ribadito e per le ragioni espresse nell’ordinanza 30.10.2006, n. 352 della Corte Costituzionale.
La Consulta, infatti, nel ribadire la legittimità costituzionale della legge 166/02 (che aveva ripristinato il D.M. 4-4-2001 in seguito all’annullamento TAR Lazio 23-7-2002 n. 6552) afferma: “che la disposizione impugnata non è priva di ragionevolezza ove si consideri che una diversa previsione normativa avrebbe comportato conseguenze distorsive più gravi di quelle asseritamente prodotte dalla norma impugnata. Ed infatti, in caso di non tempestivo intervento dell’Amministrazione, avrebbe dovuto essere nuovamente applicata la disciplina tariffaria comune anche alle prestazioni professionali di contenuto progettuale in materia di opere pubbliche; il che avrebbe comportato una illogica parificazione tra la remunerazione degli incarichi professionali in materia di lavori pubblici – notoriamente più onerosi dopo l’entrata in vigore della legge n. 109 del 1994, la quale richiede almeno tre fasi di approfondimento delle elaborazioni progettuali (cfr. art. 16) - e la remunerazione degli incarichi professionali nel settore privato, parificazione che l’art. 17 voleva appunto evitare;”
Come si può notare due sono gli elementi cui dare evidenza:
• L’effetto distorsivo più grave che si determinerebbe applicando la “vecchia” tariffa;
• L’illogica parificazione tra settore pubblico e settore privato per la notoria maggiore onerosità degli incarichi in materia di lavori pubblici.
Si deve allora concludere che, in attesa che vengano adottate le “misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali” di cui all’art. 2 comma 3 della legge 248/06, il sistema delle tariffe resta l’unico parametro oggettivo e codificato per fungere da riferimento nella determinazione dei compensi da porre come base per gli affidamenti. Ciò anche in analogia con i “prezziari o listini” che l’art. 89 secondo comma, del Dlgs. 163/06 suggerisce come riferimento per la stima dei lavori pubblici senza dover per questo dare motivazione.

Romolo Balasso architetto
Presidente Centro Studi Tecnojus